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Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 16/12/2006
Ascoltando....
Francisco (Pancho) Villa - Victor Jara
Pancho è Pancho Villa, eroe della rivoluzione messicana del 1910-1911, Paco è Paco Ignacio Taibo II, il quale dopo aver scritto una eccellente biografia di Che Guevara, sceglie ora di narrare la vita di uno degli eroi del suo paese.
Il quotidiano La Jornada ne ha anticipato il”capitolo zero”. L’edizione italiana uscirà nel 2007 per Marco Tropea Editore con la traduzione di Pino Cacucci.
Riporto qui di seguito un passo del “capitolo zero” in cui con poche parole e districandosi magistralmente con quel linguaggio così particolare che lo distingue, tra falsità e verità, tra realtà storica e leggenda, Paco Ignacio Taibo II rende la personalità e il valore di Doroteo Arango Arámbula, da tutti meglio conosciuto come Pancho Villa.
E forse ricordare proprio ora il suo valore e la sua personalità può contribuire a ridare a tutto il Messico quella dignità che è stata calpestata dagli avvenimenti degli ultimi mesi.
E a noi, lettori lontani, ma emozionalmente vicini, può comunque dare motivo di partecipazione alla lotta che non è solo della APPO o dei maestri di Oaxaca o dei sostenitori di AMLO, ma è quella, sempre e comunque condivisibile, di ogni popolo e individuo quando affermano e reclamano i diritti fondamentali del vivere.
“Questa è la storia di un uomo i cui metodi di lotta si dice siano stati studiati da Rommel (falso), da Mao Tse Tung (falso) e dal Subcomandante Marcos (vero). Che reclutò Tom Mix per la Rivoluzione messicana (abbastanza improbabile, ma non impossibile), che si fece fotografare a fianco di Patton (non è molto divertente, Gorge a quell’epoca era un tenentello di poca importanza), che aveva avuto una relazione con María Conesa , la vedette più importante della storia del Messico (falso, ci provò ma non ci riuscì) e che uccise Ambrose Bierce (assolutamente falso). Che compose La Adelita (falso), però lo dice il Corrido de la muerte di Pancho Villa, che peraltro gli attribuisce anche La Cucaracha, altra cosa che non fece.
Un uomo che fu contemporaneo di Lenin, di Freud, di Kafka, di Houdini, di ModigliAni, di Gandhi, ma che non sentì parlare mai di loro, e se lo fece, perché a volte gli leggevano il giornale, sembrò non dare a questi personaggi alcun importanza, perché erano estranei al territorio che per Villa era tutto:una piccola frangia di pianeta che va dalle città di frontiera texane a Città del Messico, città che peraltro di sicuro non gli piaceva. Un uomo che si era sposato, o che aveva mantenuto strette relazioni semiconiugali , 27 volte, e che ebbe almeno 26 figli (secondo le mie incomplete verifiche), al quale però sembra non piacessero troppo matrimoni e i preti, ma piuttosto le feste, il ballo, e soprattutto i compari, gli amici.
Un personaggio con fama di beone che comunque assaggiò appena l’alcol in tutta la sua vita, condannò a morte i suoi ufficiali ubriachi, distrusse damigiane di bevande alcoliche in varie città che conquistò (lasciò le strade di Ciudad Juárez a puzzare di liquore quando ordinò la distruzione della bevanda nelle cantine), a cui piacevano i frullati di fragola, le arachidi caramellate, il formaggio fuso, gli asparagi confezionati e la carne cucinata sulla fiamma finchè non diventava come la suola di una scarpa.
Un uomo che ha almeno tre “autobiografie”, nessuna delle quali però scritta dalla sua mano.
Una persona che sapeva a malapena leggere e scrivere, e che però quando divenne governatore dello stato di Chihuahua fondò in un mese cinquanta scuole. Un uomo che nell’era della mitragliatrice e della guerra di trincea usò magistralmente la cavalleria e la combinò con gli attacchi notturni, l’aviazione e la ferrovia. Ancora resta memoria in Messico dei pennacchi di fumo del centinaio di treni della División del Norte che avanzavano verso Zatecas.
Un individuo che nonostante si definisse un uomo semplice, adorava le macchina da cucire, le motociclette e i trattori.
Un rivoluzionario con la mentalità da rapinatore di banche, che mentre era generale di una divisione e di trentamila uomini, trovava il tempo per nascondere tesori in dollari, oro e argento in grotte e soffitte, o in tombe clandestine. Tesori con cui poi comprava munizioni per il suo esercito, in un paese che non produceva pallottole.
Un personaggio che iniziando dal furto organizzato di vacche creò la più spettacolare rete di contrabbando al servizio di una rivoluzione.
Un cittadino che nel 1916 propose la pena di morte per coloro che commettevano frodi elettorali, insolito fenomeno della storia del Messico (Ahi Calderón…AM)
L’unico messicano che fu a punto di comprare un sottomarino, che fu cavaliere di un cavallo magico di nome Sette Leghe (che in realtà era una cavalla) e realizzò il desiderio della futura generazione del narratore, scappare dalla prigione militare di Tlatelolco.
Un uomo che odiavano così tanto, che per ammazzarlo spararono 150 colpi alla macchina su cui viaggiava.
A cui, tre anni dopo averlo ucciso, rubarono la testa, e che è riuscito a ingannare i suoi persecutori perfino dopo morto, perché anche se ufficialmente si dice che riposi nel Monumento alla Rivoluzione di Città del Messico (quella fosca mole di pietra sgraziata che sembra celebrare la fine della rivoluzione, schiacciata da una lastra di 50 anni di tradimenti) continua ad essere sepolto a Parral.
Questa è la storia, dunque di un uomo che raccontò e di cui altri raccontarono molte volte le storie, in tali e tante differente maniere che a volte sembra impossibile decifrarle.
Lo storico non può fare altro che osservare il personaggio con ammirazione”.
Fonte italiana: Mensile Carta Etc.
Pancho es Pancho Villa, héroe de la revolución méxicana de 1910-1911. Paco es Paco Ignacio Taibo II, quien después de haber escrito una excelente biografía del Che Guevara quiere ahora contar la vida de uno de los héroes de su país. El diario La Jornada anticipó el “capítulo cero”. La edición italiana serà en 2007 por la editorial Marco Tropea y por la traducción de Pino Cacucci. Copio aquí en seguida un pasaje del “capítulo cero” en el cual con pocas palabras y librandóse magistralmente con aquel lenguaje que lo distingue, entre falsedad y verdad, entre realidad histórica y leyenda, Paco Ignacio Taibo II nos devolve la personalidad y el valor de Doroteo Arango Arámbula, por todos conocido como Pancho Villa.Yo creo que recordar ahora su valía y su personalidad puede contribuir a devolver a todo México la dignidad que ha sido pisada por los acontecimientos de esos últimos meses. Y a nosotros, lectores lejanos, pero emocionalmente cercanos, puede de todas maneras ofrecer razón de participación a la lucha que non es solamente la de la APPO o de los maestros de Oaxaca o de los partidarios de AMLO pero es siempre y en cualquier caso compartida, la de cada pueblo y cada hombre cuando afirman y reclaman los derechos fundamentales de la vida. “Esta es la historia de un hombre del que se dice que sus métodos de lucha fueron estudiados por Rommel (falso), Mao Tse Tung (falso) y el subcomandante Marcos (cierto); que reclutó a Tom Mix para la Revolución Mexicana (bastante improbable, pero no imposible), se fotografío al lado de Patton (no tiene mucha gracia, George era en aquella época un tenientillo sin mayor importancia), se ligó a María Conesa, la vedette más importante en la historia de México (falso; trató, pero no pudo) y mató a Ambrose Bierce (absolutamente falso). Que compuso La Adelita (falso), pero lo dice el Corrido de la muerte de Pancho Villa, que de pasada le atribuye también La cucharacha, cosa que tampoco hizo. Un hombre que fue contemporáneo de Lenin, de Freud, de Kafka, de Houdini, de Modigliani, de Gandhi, pero que nunca oyó hablar de ellos, y si lo hizo, porque a veces le leían el periódico, no pareció concederles ninguna importancia porque eran ajenos al territorio que para Villa lo era todo: una pequeña franja del planeta que va desde las ciudades fronterizas texanas hasta la ciudad de México, que por cierto no le gustaba. Un hombre que se había casado, o mantenido estrechas relaciones cuasimaritales, 27 veces, y tuvo al menos 26 hijos (según mis incompletas averiguaciones), pero al que no parecían gustarle en exceso las bodas y los curas, sino más bien las fiestas, el baile y, sobre todo, los compadres. Un personaje con fama de beodo que sin embargo apenas probó el alcohol en toda su vida, condenó a muerte a sus oficiales borrachos, destruyó garrafas de bebidas alcohólicas en varias ciudades que tomó (dejó las calles de Ciudad Juárez apestando a licor cuando ordenó la destrucción de la bebida en las cantinas), le gustaban las malteadas de fresa, las palanquetas de cacahuate, el queso asadero, los espárragos de lata y la carne cocinada a la lumbre hasta que quedara como suela de zapato. Un hombre que cuenta al menos con tres "autobiografías", pero ninguna de ellas fue escrita por su mano. Una persona que apenas sabía leer y escribir, pero cuando fue gobernador del estado de Chihuahua fundó en un mes 50 escuelas. Un hombre que en la era de la ametralladora y la guerra de trincheras, usó magistralmente la caballería y la combinó con los ataques nocturnos, los aviones, el ferrocarril. Aún queda memoria en México de los penachos de humo del centenar de trenes de la División del Norte avanzando hacia Zacatecas. Un individuo que a pesar de definirse a sí mismo como un hombre simple, adoraba las máquinas de coser, las motocicletas, los tractores. Un revolucionario con mentalidad de asaltabancos, que siendo general de una división de 30 mil hombres, se daba tiempo para esconder tesoros en dólares, oro y plata en cuevas y sótanos, en entierros clandestinos; tesoros con los que luego compraba municiones para su ejército, en un país que no producía balas. Un personaje que a partir del robo organizado de vacas creó la más espectacular red de contrabando al servicio de una revolución. Un ciudadano que en 1916 propuso la pena de muerte para los que cometieran fraudes electorales, inusitado fenómeno en la historia de México. El único mexicano que estuvo a punto de comprar un submarino, que fue jinete de un caballo mágico llamado Siete Leguas (que en realidad era una yegua) y cumplió el anhelo de la futura generación del narrador, fugarse de la prisión militar de Tlatelolco. Un hombre al que odiaban tanto, que para matarlo le dispararon 150 balazos al coche en que viajaba; al que tres años después de asesinarlo le robaron la cabeza, y que ha logrado engañar a sus perseguidores hasta después de muerto, porque aunque oficialmente se dice que reposa en el Monumento a la Revolución de la ciudad de México (esa hosca mole de piedra sin gracia que parece celebrar la defunción de la revolución aplastada por una losa de 50 años de traiciones), sigue enterrado en Parral. Esta es la historia, pues, de un hombre que contó, y del que contaron muchas veces sus historias, de tantas y tan variadas maneras que a veces parece imposible desentrañarlas. El historiador no puede menos que observar al personaje con fascinación.”
Fotografie del 16/12/2006
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