Ascoltando....
Francisco (Pancho) Villa - Victor Jara
Pancho è Pancho Villa, eroe della rivoluzione messicana del 1910-1911, Paco è Paco Ignacio Taibo II, il quale dopo aver scritto una eccellente biografia di Che Guevara, sceglie ora di narrare la vita di uno degli eroi del suo paese.
Il quotidiano La Jornada ne ha anticipato il”capitolo zero”. L’edizione italiana uscirà nel 2007 per Marco Tropea Editore con la traduzione di Pino Cacucci.
Riporto qui di seguito un passo del “capitolo zero” in cui con poche parole e districandosi magistralmente con quel linguaggio così particolare che lo distingue, tra falsità e verità, tra realtà storica e leggenda, Paco Ignacio Taibo II rende la personalità e il valore di Doroteo Arango Arámbula, da tutti meglio conosciuto come Pancho Villa.
E forse ricordare proprio ora il suo valore e la sua personalità può contribuire a ridare a tutto il Messico quella dignità che è stata calpestata dagli avvenimenti degli ultimi mesi.
E a noi, lettori lontani, ma emozionalmente vicini, può comunque dare motivo di partecipazione alla lotta che non è solo della APPO o dei maestri di Oaxaca o dei sostenitori di AMLO, ma è quella, sempre e comunque condivisibile, di ogni popolo e individuo quando affermano e reclamano i diritti fondamentali del vivere.
“Questa è la storia di un uomo i cui metodi di lotta si dice siano stati studiati da Rommel (falso), da Mao Tse Tung (falso) e dal Subcomandante Marcos (vero). Che reclutò Tom Mix per la Rivoluzione messicana (abbastanza improbabile, ma non impossibile), che si fece fotografare a fianco di Patton (non è molto divertente, Gorge a quell’epoca era un tenentello di poca importanza), che aveva avuto una relazione con María Conesa , la vedette più importante della storia del Messico (falso, ci provò ma non ci riuscì) e che uccise Ambrose Bierce (assolutamente falso). Che compose La Adelita (falso), però lo dice il Corrido de la muerte di Pancho Villa, che peraltro gli attribuisce anche La Cucaracha, altra cosa che non fece.
Un uomo che fu contemporaneo di Lenin, di Freud, di Kafka, di Houdini, di ModigliAni, di Gandhi, ma che non sentì parlare mai di loro, e se lo fece, perché a volte gli leggevano il giornale, sembrò non dare a questi personaggi alcun importanza, perché erano estranei al territorio che per Villa era tutto:una piccola frangia di pianeta che va dalle città di frontiera texane a Città del Messico, città che peraltro di sicuro non gli piaceva. Un uomo che si era sposato, o che aveva mantenuto strette relazioni semiconiugali , 27 volte, e che ebbe almeno 26 figli (secondo le mie incomplete verifiche), al quale però sembra non piacessero troppo matrimoni e i preti, ma piuttosto le feste, il ballo, e soprattutto i compari, gli amici.
Un personaggio con fama di beone che comunque assaggiò appena l’alcol in tutta la sua vita, condannò a morte i suoi ufficiali ubriachi, distrusse damigiane di bevande alcoliche in varie città che conquistò (lasciò le strade di Ciudad Juárez a puzzare di liquore quando ordinò la distruzione della bevanda nelle cantine), a cui piacevano i frullati di fragola, le arachidi caramellate, il formaggio fuso, gli asparagi confezionati e la carne cucinata sulla fiamma finchè non diventava come la suola di una scarpa.
Un uomo che ha almeno tre “autobiografie”, nessuna delle quali però scritta dalla sua mano.
Una persona che sapeva a malapena leggere e scrivere, e che però quando divenne governatore dello stato di Chihuahua fondò in un mese cinquanta scuole. Un uomo che nell’era della mitragliatrice e della guerra di trincea usò magistralmente la cavalleria e la combinò con gli attacchi notturni, l’aviazione e la ferrovia. Ancora resta memoria in Messico dei pennacchi di fumo del centinaio di treni della División del Norte che avanzavano verso Zatecas.
Un individuo che nonostante si definisse un uomo semplice, adorava le macchina da cucire, le motociclette e i trattori.
Un rivoluzionario con la mentalità da rapinatore di banche, che mentre era generale di una divisione e di trentamila uomini, trovava il tempo per nascondere tesori in dollari, oro e argento in grotte e soffitte, o in tombe clandestine. Tesori con cui poi comprava munizioni per il suo esercito, in un paese che non produceva pallottole.
Un personaggio che iniziando dal furto organizzato di vacche creò la più spettacolare rete di contrabbando al servizio di una rivoluzione.
Un cittadino che nel 1916 propose la pena di morte per coloro che commettevano frodi elettorali, insolito fenomeno della storia del Messico (Ahi Calderón…AM)
L’unico messicano che fu a punto di comprare un sottomarino, che fu cavaliere di un cavallo magico di nome Sette Leghe (che in realtà era una cavalla) e realizzò il desiderio della futura generazione del narratore, scappare dalla prigione militare di Tlatelolco.
Un uomo che odiavano così tanto, che per ammazzarlo spararono 150 colpi alla macchina su cui viaggiava.
A cui, tre anni dopo averlo ucciso, rubarono la testa, e che è riuscito a ingannare i suoi persecutori perfino dopo morto, perché anche se ufficialmente si dice che riposi nel Monumento alla Rivoluzione di Città del Messico (quella fosca mole di pietra sgraziata che sembra celebrare la fine della rivoluzione, schiacciata da una lastra di 50 anni di tradimenti) continua ad essere sepolto a Parral.
Questa è la storia, dunque di un uomo che raccontò e di cui altri raccontarono molte volte le storie, in tali e tante differente maniere che a volte sembra impossibile decifrarle.
Lo storico non può fare altro che osservare il personaggio con ammirazione”.
Fonte italiana: Mensile Carta Etc.