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Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 19/09/2008

In Messico, il principale movimento armato del paese, l’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario), attraverso la diffusione di un comunicato trasmesso il 24 aprile di quest’anno, ha proposto l’avvio di un dialogo con il Governo chiedendo la riapparizione in vita di Edmundo Reyes Amaya e di Gabriel Alberto Cruz Sánchez, due militanti del gruppo ribelle scomparsi dalla città di Oaxaca il 25 maggio del 2007. In realtà esistono prove sufficienti, raccolte da alcune organizzazioni civili per la difesa dei diritti umani e dalla Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) che i due militanti del gruppo insorgente sono stati arrestati da agenti di polizia nel corso di un’operazione svoltasi il 25 maggio 2007 nella città di Oaxaca.
“Ci sono prove del fatto che sono stati arrestati da forze di polizia, e che sono stati torturati negli uffici della Procura, dai quali sono stati poi portati via feriti in autombulanze dell’esercito”, denuncia l’EPR nel suo comunicato, nominando come intermediari nel dialogo con il Governo alcune figure di spicco della società civile messicana e cioè l’arcivescovo Samuel Ruiz, lo scrittore Carlos Montemayor, l’avvocato e giornalista Miguel Ángel Granados Chapa, l’antropologo Gilberto López y Rivas e il Fronte Nazionale Contro la Repressione rappresentato dalla senatrice Rosario Ibarra de Piedra.
Il Governo ha chiesto che il gruppo armato ponga fine ad ogni azione di violenza o di sabotaggio e che le trattative siano volte anche alla smilitarizzazione futura dell’EPR. L’EPR invece, oltre ovviamente alla riapparizione in vita di Edmundo Reyes Amaya e di Gabriel Alberto Cruz Sánchez, ha chiesto che lo Stato cessi ogni azione di provocazione e di violenza contro i loro militanti e i loro familiari, così come contro i familiari dei due desaparecidos. Tuttavia le trattative e i dialoghi si sono arenati a questo punto, soprattutto di fronte alla evidente mancanza di volontà politica da parte del Governo di assumersi le responsabilità della scomparsa dei due uomini.
Pertanto, la Commissione di Mediazione in una lunga relazione presentata il 14 agosto scorso, dopo aver raccolto diverso materiale, frutto di ricerche e di interviste effettuate a organizzazioni, istituzioni, simpatizzanti dell’EPR e militanti, nonché ai familiari stessi delle due persone scomparse (materiale raccolto poi in un dossier formato da 39 punti e da un annesso tecnico), rende noto che sono chiare le intenzioni del Governo messicano di non rispondere alle questioni e alle domande sollevate dalla Mediazione tempo prima, e che oltre alla dimostrazione palese della mancanza di volontà politica dello stesso, risulta evidente che alcuni organi dello Stato sono a conoscenza di elementi e di notizie sui due scomparsi che non sono stati messi a disposizione della stessa Commissione.
Da tali incontri ed interviste e anche in seguito a un incontro svoltosi con la Commissione Nazionale dei Diritti umani, è risultato chiaramente alla Commissione di Mediazione che si tratta questo di un caso di desaparición forzada (sparizione forzata) e non di sequestro come è stato prospettato fin dall’inizio dal Governo messicano.
La sparizione forzata, come ricordano e sottolineano gli stessi membri della Commissione, nell’allegato tecnico presentato alle parti il 14 agosto scorso, è un crimine contro l’umanità, che è stato lungamente applicato in passato “come un metodo per ottenere governabilità attraverso la paura che tale pratica produce nella popolazione. E questo nonostante il Messico abbia firmato diversi trattati internazionali che ripudiano questo crimine”. Purtroppo in Messico è ancora una pratica tristemente attuale
C’è da dire che il 14 agosto, giorno in cui la Commissione di Mediazione informava le parti della sospensione dei dialoghi in attesa di atti chiari ed inequivocabili a dimostrare l’intenzione delle istituzioni messicane di dare notizie certe sulla sorte di Edmundo Reyes Amaya e di Gabriel Alberto Cruz Sánchez, giungeva un comunicato stampa da parte del di Governo, scarno e affrettato nei contenuti e nella forma, che informava le parti che la Procura Generale della Repubblica sta svolgendo indagini per il reato di sparizione forzata di persona.
Tuttavia sia Carlos Montemayor, membro della Commissione di Mediazione, che Pablo Romo, membro di SERAPAZ, associazione civile che sta seguendo da vicino le trattative, assicurano in interviste rilasciate a chi scrive (qui e qui) che si tratta di un comunicato che non aggiunge nulla a quanto già noto, dal momento che a Oaxaca il Procuratore di Giustizia dello Stato medesimo, aveva già aperto d’ufficio un’indagine preliminare per sparizione forzata e due agenti di polizia che erano stati in carcere preventivo con questa accusa. Praticamente pertanto è solo lo Stato federale del Messico che non riconosce la sparizione forzata dei due membri dell’EPR e che continua a non dare significativi segnali di voler rendere noto cosa ne è stato di loro. Accettare che si tratti di un caso di desaparecion forzada sarebbe infatti un passo di rilevanza “politica, sociale e democratica” storico nel paese, che getterebbe le basi per una visione diversa di quanto accaduto in passato e di quanto accade tutt’ora in Messico e che farebbe traballare pesantemente i concetti stessi di impunità e corruzione, sui quali si basa gran parte del sistema giudiziario del paese.
L’Esercito Popolare Rivoluzionario al momento, ha confermato la volontà di non compiere azioni armate fintanto che non giungano segnali importanti, ma la tregua potrebbe durare ben poco. Ricordiamo che l’EPR, nato inizialmente dalla fusione del PROCUP – PDLP ( Partido Revolucionario Obrero Clandestino Unión del Pueblo - Partido de los Pobres) è alla testa di altri 4 gruppi armati minori che secondo il Centro di Investigazione e Sicurezza Nazionale (CISEN) possono “colpire la pace sociale e la sicurezza nazionale”.
L’EPR, movimento di stampo socialista, nazionalista e fortemente contrario alle privatizzazioni delle risorse del paese, proprio un anno fa si rese protagonista di una serie di attentati ai danni della PEMEX, l’azienda petrolifera di Stato, che sebbene non abbiano causato vittime tra la popolazione civile sicuramente provocarono ingenti danni economici. Ne rivendicarono la paternità in un comunicato, minacciando di compierne ulteriori fino alla riapparizione in vita di Edmundo Reyes Amaya e di Gabriel Alberto Cruz Sánchez. Adesso l’EPR ha intrapreso la via della mediazione e delle trattative, dimostrando di essere in grado di trattare politicamente e civilmente con il Governo. Che tace e non risponde.
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Questo articolo di Alessandro Portelli è talmente semplice e chiaro nella sua lucida analisi di quello che sono il razzismo e il fascismo oggi che andrebbe secondo me letto in tutti i licei. "Io non sono razzista ma...", "io non sono fascista ma...": è questo limbo di vigliacchi razzisti e fascisti che si trovano a mezza strada tra gli antifascsisti e gli antirazzisti convinti e i fascisti e razzisti dichiarati, che stanno affossando la coscienza morale e civile della nostra società. Quei vigliacchi che hanno dato purtroppo ampia rappresentazione di sè nei commenti a questo post.
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Alessandro Portelli Fonte: Il Manifesto Hanno proprio ragione i magistrati e i politici milanesi secondo cui massacrare una persona chiamandolo «negro di merda» non è un atto di razzismo. Infatti hanno dalla loro la più autorevole giurisprudenza del nostro paese: un paio di anni or sono, la Corte di Cassazione sentenziò, infatti, che «l’espressione ’sporco negro’» - pronunciata da un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie lesioni - non denota, di per sé, l’intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una manifestazione di ‘generica antipatia, insofferenza o rifiuto’ per chi appartiene a una razza diversa». Immagino che la suddetta preclara giurisprudenza possa applicarsi anche a espressioni affini come «negro di merda». Quindi, «nessuna aggravante». In effetti, i due assassini di Milano hanno fatto sapere che avrebbero fatto lo stesso anche se il loro bersaglio fosse stato bianco e questo, secondo loro, dovrebbe rassicurarci (mi viene in mente la signora con bambina che allo stadio faceva «buuu» ai giocatori di colore e, alle mie rimostranze, rispose che lo faceva pure ai bianchi. Come se una schifezza ne scusasse un’altra). Ma loro almeno lo fanno per proteggersi - e comunque, per fortuna, manca la conferma empirica. Quelli che davvero non hanno vergogna sono quelli che nelle istituzioni e nei media gli tengono bordone. Io infatti ero convinto che «generica antipatia, insofferenza o rifiuto per chi appartiene a una razza diversa» fosse appunto una perfetta definizione del razzismo: un atteggiamento mentale e culturale, che può o meno produrre altri effetti criminosi ma è già un orrore in sé. Per aver definito «negro di merda» un giocatore avversario, il commissario tecnico della nazionale spagnola si beccò una meritata bufera di accuse di razzismo. Si vede che certe espressioni smettono di essere razziste quando alle parole si accompagnano le mazzate. La strategia discorsiva è la stessa seguita dal tribunale californiano nel caso Rodney King (quello che scatenò la rivolta di Los Angeles): suddividere un evento unitario in frammenti distinti in modo da separarne causa ed effetto e renderlo incomprensibile. In questo caso, le botte e le parole non fanno più parte di un medesimo processo, ma sono due cose separate e senza relazione fra loro: non danno le botte perché la vittima è comunque ai loro occhi uno «sporco negro», ma da una parte hanno verso di lui una «generica antipatia» e dall’altra lo ammazzano, però l’una cosa con l’altra non c’entra. Se vogliamo, su tragica piccola scala, questa è la logica che presiede la separazione fra le leggi razziali e il fascismo rivendicata dal sindaco di Roma e dai suoi seguaci: il regime cacciava i bambini dalle scuole e aiutava i nazisti a sterminarli, ma non perché era fascista e quindi razzista, ma per una mera aberrazione. Staccato dalle sue conseguenze materiali, insomma, il razzismo diventa una cosa nebulosa e astratta, che uno può negare e persino condannare, continuando a praticarlo. Questa mi pare anche la debolezza dell’« antifascismo» dichiarato da Fini: se davvero ci riconosciamo nei valori della Resistenza e della Costituzione, allora sarà il caso di metterli in pratica, e di smettere di discriminare e schedare i rom, cacciare gli immigrati, considerare aggravante la clandestinità, praticare politiche che colpiscono sistematicamente i più deboli e più marginali. Cioè: ricomponiamo parole e fatti, ricomponiamo i proclami di antirazzismo con pratiche antirazziste, egualitarie, civili - il contrario di quelle per le quali la commissione europea ha appena ribadito la condanna al nostro governo (contro quello che avevano proclamato Maroni e i tg). Invece facciamo esattamente il contrario: separiamo le parole dai fatti che ne conseguono, e ci serviamo di questa scissione per attenuare la gravità di un assassinio, o per prendersi patenti di democraticità senza bisogno di fare una politica democratica. La parola chiave del razzismo nostrano è «ma»: «io non sono razzista ma…». Io non sono razzista, ma quelli i biscotti li avevano presi. Io non sono razzista, ma i rom rubano. Il documento degli «scienziati» fascisti sulla razza, almeno, proclamava che era l’ora che gli italiani si proclamassero «francamente» razzisti. Adesso, noi italiani brava gente ci vergogniamo del nostro razzismo al punto da negarlo in faccia all’evidenza - e proprio questa negazione ci permette di continuare a praticarlo in forme sempre più violente.
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