Incontriamo gli ex prigionieri politici che i primi giorni di dicembre a Roma hanno testimoniato, dinanzi al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, contro l’ex procuratore militare di Temuco Alfonso Podlech Michaud, accusato dalla magistratura italiana dell’omicidio e della scomparsa dell’ ex sacerdote italiano Omar Venturelli, nell’ottobre del 1973, sotto la dittatura di Pinochet.
Alfonso Podlech, contro il quale era stato emesso un mandato di cattura internazionale dalla Procura di Roma, fu arrestato il 27 luglio 2008 all’aeroporto Barajas di Madrid e successivamente estradato in Italia.
Carlos Lopez Fuentes, ex prigioniero politico condannato in Consiglio di Guerra dal procuratore militare Podlech a 9 anni di carcere, Jeremías Levinao, mapuche , militante del Movimento Contadino Rivoluzionario, che a Temuco ha sofferto carcere e torture e sua figlia Tania ci raccontano in questa intervista, che sembra più una chiacchierata tra vecchi amici, i giorni precedenti al golpe dell’ 11 settembre, ma anche quello che avvenne dopo, a Temuco, in quella regione meridionale del Cile chiamata Araucanía, ci spiegano il ruolo che ha avuto Alfonso Podlech Michaud nell’apparato repressivo cileno e ci raccontano del loro esilio in Francia, dove vivono attualmente.
Annalisa Melandri – Martedì scorso (il 2 dicembre ) vi siete incontrati con il Pubblico Ministero Giancarlo Capaldo. Che impressione avete avuto di questo incontro?
Carlos López Fuentes - Personalmente credo che l’incontro con Capaldo sia stato positivo in quanto sono stati aggiunti elementi e testimonianze nuove che non si trovavano negli atti e che possono accelerare la procedura per condurlo a giudizio.
Jeremías Levinao – Sicuramente è stato positivo perché nel mio caso ho apportato elementi nuovi su come veniva applicata la tortura durante la dittatura e ho dimostrato che era proprio Podlech che emetteva le condanne ai prigionieri.
A.M. – Nel tuo caso, Jeremías, puoi affermare che la repressione in quel periodo fu più crudele contro i prigionieri mapuche a differenza di come si manifestava contro tutti gli altri prigionieri politici?
J.L. – Io credo che la repressione sia stata la stessa contro tutti, ma che contro il popolo mapuche fu generalizzata, questo dovuto al fatto che i Mapuche parteciparono in modo diretto alla riforma agraria attuata dal governo di Salvador Allende. La riforma agraria colpì allora il latifondo della zona e una gran parte dei proprietari terrieri dopo il golpe si riappropriarono delle terre che erano state loro espropriate legalmente dal governo di Unità Popolare. Ed è per questo che si ebbe quasi una vendetta da parte dei latifondisti che parteciparono alla repressione.
A.M. - Si sono aggiunti quindi elementi nuovi che possono essere utili nel processo contro Podlech e quali sono?
C.L.F. - Penso di si, perché ho consegnato anche la testimonianza scritta ( notificata al consolato spagnolo a Parigi ) della denuncia che ho presentato contro Pinochet al giudice Garzón. La testimonianza presentata con quella denuncia, è la stessa che ho presentato al giudice Capaldo con l’aggiunta di nuovi elementi. Non posso fornire ulteriori dettagli, ma esattamente la stessa testimonianza che ho rilasciato contro Pinochet , con l’aggiunta di nuovi elementi, l’ho fornita contro Podlech.
J.L. – Io ho rilasciato una testimonianza contro Pinochet che è stata notificata in Spagna. Nel mio caso ho riportato i dettagli delle torture e il trattamento da me ricevuto durante la detenzione.
A.M. – Avete conosciuto Omar Venturelli in carcere o lo conoscevate già prima della sua detenzione?
C.L.F. - Io personalmente non lo conoscevo. Quando sono stato arrestato lui era già un desaparecido. E’ scomparso il 4 ottobre 1973 ed io sono stato arrestato alla fine di novembre dello stesso anno. Quando qualcuno arrivava in carcere gli si avvicinavano immediatamente molti compagni già detenuti e gli davano informazioni su quello che c’era da fare ma soprattutto sulle persone arrestate e che erano scomparse. Le informazioni venivano date per proteggerti e nello stesso tempo perché tu fossi cosciente del pericolo che correvi anche stando in prigione. Non era vero che perché eravamo in carcere potevamo avere la sicurezza di aver salva la vita. Eravamo nelle mani della Procura Militare diretta dal Sig. Podlech e gli ordini che venivano da lì erano: torturare, uccidere o far sparire. I prigionieri politici arrestati lì si erano resi conto infatti che i compagni che arrivavano in carcere, come accadde per esempio nel caso di Venturelli , a volte scomparivano in un secondo momento. Podlech firmava l’ordine di scarcerazione, le persone uscivano dal carcere ed erano attese fuori da un altro gruppo appartenente alle forze di repressione che se li portavano via. Tutto questo però era coordinato dalla Procura Militare che era operativa nel Reggimento Tucapel di Temuco e che lavorava insieme alle altre unità (Forza Aerea, Carabinieri e civili).
AM. – Che ricordi avete dell’11 settembre a Temuco? Carlos tu sei stato arrestato nel novembre del 1973, fino a quel momento eri libero?
C.L.J. - No, io ero in clandestinità. L’11 settembre avvenne il colpo di stato e iniziò la pubblicazione dei bandi. I bandi erano i comunicati delle nuove autorità militari della zona che con questi invitavano le persone a presentarsi alla procura o al Reggimento Tucapel. Le autorità dicevano che ciò era necessario soltanto per controllare il domicilio delle persone i cui nomi erano apparsi nei bandi. Molte persone sono scomparse dopo che si sono presentate volontariamente al Reggimento Tucapel, come è avvenuto per esempio al compagno Venturelli e a molti altri. Chi poteva immaginare che il fatto di essere stati chiamati attraverso i bandi militari avrebbe significato: pericolo di morte?
A.M. – Quindi già dall’ 11 settembre i militari erano in possesso dei nomi di tutti quelli che poi vennero uccisi, arrestati o che scomparvero...
C.L.F. - Si, chiaro. Se controlliamo le liste delle persone che si presentarono al Reggimento Tucapel, vediamo che in queste liste ci sono i nomi di dirigenti sindacali, di dirigenti contadini, di professori universitari di sinistra, di funzionari del Servizio Sanitario Nazionale, che erano di sinistra…
A.M. - Si dice che Podlech fin dall’ 11 settembre si trovasse nel carcere di Temuco firmando gli ordini di scarcerazione dei militanti appartenenti al gruppo di estrema destra Patria e Libertà che erano stati arrestati per delitti commessi contro il governo di Unità Popolare . Quale fu, prima e dopo del golpe, il ruolo di Patria e Libertà?
C.L.F. - Patria e Libertà fu un movimento di estrema destra che nacque in Cile immediatamente dopo che Salvador Allende fu eletto democraticamente presidente della Repubblica. Il dottor Salvador Allende fu eletto il 4 settembre 1970, cinque giorni dopo il movimento Patria e Libertà era già stato creato e il suo obiettivo immediato fu quello di boicottare e distruggere il governo di Allende per mezzo di un colpo di stato. Patria e Libertà si dissolse due o tre giorni dopo il golpe quando la sua missione era ormai conclusa. Tuttavia, va fatto notare che molti dei suoi membri poi si integrarono nell’apparato repressivo. La loro missione fu quella di boicottare il governo di Allende con tutti i mezzi possibili: attentati, distruzioni di ponti e ferrovie, omicidi dei dirigenti sindacali, mercato nero...
A.M. - E tu, Jeremías quando sei stato arrestato?
J.L. – Io sono stato arrestato nel giugno del 1974.
A.M. – E l’ 11 settembre ti trovavi anche tu in clandestinità?
J.L. – Si, anche io mi trovavo in clandestinità a Temuco.
A.M. – Che ricordi hai di allora?
J.L. – Nelle zone rurali i contadini si erano organizzati per lavorare la terra in cooperative agricole e insediamenti. Queste organizzazioni erano assistite da enti statali: la Corporazione per la Riforma Agraria (CORA) e l’Istituto per lo Sviluppo Agrario (INDAP). Siccome esistevano liste di contadini appartenenti alle cooperative, i militari se ne impossessarono e iniziarono a reprimere e a chiedere agli stessi che si presentassero ai reggimenti, alle procure e ai posti di polizia. I latifondisti misero a disposizione perfino i loro veicoli per arrestarli.
A.M. – Quanto tempo sei stato in carcere?
J.L. – Sono stato in carcere un anno e mezzo, venni arrestato nel giugno del 1974 e tenuto in un centro di detenzione segreta dove fui torturato fino al mese di ottobre del 1974 quando mi trasferirono alla procura. In quel momento fui riconosciuto pubblicamente come prigioniero politico. Poi fui condannato nel penultimo Consiglio di Guerra che si tenne a Temuco, diretto da Alfonso Podlech come Procuratore Militare, questo avvenne nel maggio del 1976. Era Podlech quello che accusava.
C.L.F. - Il Consiglio di Guerra era composto da tre membri: 3 dei Carabinieri, 3 dell’Esercito, e 3 dell’Aviazione. Loro emettevano le condanne sulla base delle accuse emesse dal Procuratore Militare. E il procuratore dell’accusa, sempre, di tutti i Consigli di Guerra di Temuco, fu Podlech, dall’inizio alla fine.
A.M. – Come giudicate il fatto che l’unica possibilità di ottenere giustizia viene dalla magistratura italiana?
C.L.F. – In Cile, l’impunità è grande. Quando Pinochet perse il plebiscito, i militari e i civili negoziarono per il governo di transizione. Il dittatore perse il referendum, egli sapeva che si sarebbe dovuto ritirare dal governo poiché si rese conto che a livello internazionale non godeva più di molto appoggio, grazie al lavoro della solidarietà internazionale che non smise mai di denunciare i crimini e le violazioni dei diritti umani. Allora con il gruppo di persone che stava dietro di lui, con i consiglieri e con i Chicago Boys, cominciò immediatamente a negoziare con l’opposizione. Nell’opposizione c’era un gruppo che si chiama tutt’ora Concertazione, costituito dai Democratici Cristiani, duri oppositori del governo di Allende e da una parte della sinistra, come alcuni settori socialisti o socialdemocratici, tranne che i comunisti che erano stati completamente eliminati dalla brutale repressione della dittatura. In questo patto che si creò tra i militari e i civili per poter passare dalla dittatura al processo di transizione democratica , i militari dissero: “noi accettiamo il fatto di aver perso il referendum però voi in futuro non giudicherete nessun militare”. Gli assassini già avevano una legge, una legge del 1978 di autoamnistia per tutti i repressori, per tutti i militari che avevano partecipato alla prima fase della repressione, la più sanguinosa del colpo di stato, dove sparirono la maggior parte delle persone e delle quali fino al giorno d’oggi non sono stati ritrovati i loro resti.
A.M. Jeremías, tu di cosa pensi che abbia bisogno il Cile per venir fuori dall’impunità? E come vedi la situazione della sinistra nel paese?
J.L. – Io penso che, come dicevo prima, in Cile oggi è impossibile che ci sia veramente giustizia e che l’impunità sia elevata. Noi come vittime crediamo che l’Italia possa fare giustizia, cosa che non avverrà in Cile. Io penso, e questo va detto chiaramente, che non ci sia speranza di giustizia in Cile fino a quando non ci sarà un cambiamento nella Costituzione del 1980, costituzione scritta dalla dittatura di Pinochet e che è attualmente in vigore.
A.M. – E allora, da dove può venire questo cambiamento?
J.L. – Non c’è una prospettiva e non c’è nemmeno una volontà di cambiamento. Tutto è negoziato dalla politica economica. Al governo questo conviene perchè così guadagnano denaro. Quello che interessa loro maggiormente sono le poltrone, governare e comandare.
C.L.F. – Io vorrei aggiungere qualcosa. Ci fu un cambiamento, una specie di terremoto quando cadde Pinochet (a ottobre 1998 in Inghilterra). Nessuno credeva che lui potesse essere arrestato all’estero e nessuno credeva che ci fossero tante vittime disposte a presentare denunce contro di lui e che si sarebbero mobilitate a livello europeo affinché fosse condannato. Pinochet fu arrestato a Londra nel 1998 e liberato un anno e mezzo dopo. Il suo arresto ruppe uno schema, non possiamo dire che si ruppe lo schema dell’impunità, ma quello che si ruppe fu la copertura che esisteva in Cile, per la quale non si poteva parlare dei diritti umani delle persone assassinate o scomparse. E’ in questi momenti che appare la memoria... Così si iniziò a parlare di ciò che fu la repressione, e lo raccontarono tutti i giornali e tutte le televisioni del mondo. Allora tutti i cileni si commossero, tutta la società cilena si commosse. Da quel momento si iniziò a dare importanza ai diritti umani ed è da quel momento, anche se i cileni non vogliono riconoscerlo che appaiono le vittime e fu quella una fase chiave che ebbe spazio anche su tutti i mezzi di comunicazione del mondo. I familiari delle persone scomparse si stanno domandando ancora: “dove sono”? Il Cile deve riconoscere che ci furono dei desaparecidos, deve riconoscere che ci fu una repressione e che per quasi 18 anni nel paese si è vissuto in dittatura.
A.M. - Fino a quel momento era come se il problema non esistesse...
C.L.F. - Certo, Io sono tornato in Cile (soltanto una volta) e fu tra il dicembre del 1991 e il gennaio 1992. Nel periodo di transizione del presidente Alwyn (un importante rappresentante della Democrazia Cristiana e oppositore del governo di Allende). In questo periodo si stava tentando di redigere il rapporto Retting, che serviva per vedere quante persone erano morte e quante erano scompare. Nel rapporto non si parlava di tortura, non si parlava di prigionieri politici, non si parlava di repressione massiccia. Mi detti conto che questo fatto era simbolico e non aveva niente a che vedere con la giustizia che reclamavano le vittime. Nel rapporto Retting non si chiedeva niente, era una semplice constatazione dei morti e degli scomparsi del periodo della dittatura. Quando cadde Pinochet , il rapporto Retting assunse valore perchè Garzón disse: “in Cile esiste una lista di persone scomparse” e tutto il mondo iniziò a parlare dei morti e dei desaparecidos; dopo si aggiunsero i prigionieri politici, i sopravvissuti della repressione e fu da quel momento che le cose cominciarono a cambiare.
Questo è quello che fece rompere un po’ l’impunità che regnava in Cile. La giustizia internazionale apre uno spiraglio per le vittime cilene che continuano a reclamare giustizia...
A.M. – Per finire una domanda per Tania. Quanti anni avevi quando sei arrivata in esilio in Francia con la tua famiglia?
Tania Levinao – Io avevo 4 anni.
A.M. – Immagino che non ricordi nulla di quel periodo, ma come hai vissuto l’esilio con la tua famiglia?
C.L.F. - Domada chiave...
T.L. – E’ una domanda alla quale ancora sto cercando di dare una risposta. Oggi sono adulta e sono consapevole che la mia non è stata una vita normale. Fin da piccola mi sono resa conto di essere figlia di esiliati, o meglio, di rifugiati politici. Sono stata sempre consapevole di questo, ho sempre saputo mio padre in che partito aveva militato, cosa era stato il governo di Unità Popolare, quello che aveva rappresentato per i miei genitori e anche in Francia in alcuni ambienti progressisti la politica cilena era molto seguita. Da grande ho capito che questa non era propriamente la vita di una bambina piccola, che non era la normalità e che la mia storia era un po’ diversa da quella degli altri. Oggi l’esilio fa parte della mia storia, della storia della mia famiglia, e devo convivere con questo e cercare di andare avanti. Da non molto mi dico che la mia vita non è quella dei miei genitori, perchè per molto tempo è stato come se si fosse trattato di una sola storia. In effetti è una domanda molto difficile.
C.L.F. - Questa è la “domanda”
T.L. – Questo esilio ha influito anche sulla mia vita professionale, io ho studiato diritto e non credo che sia stata una scelta casuale. Ma non tutti i figli di rifugiati politici abbiamo avuto lo stesso percorso. Conosco molti figli di esiliati che invece hanno detto: “no, io non voglio saperne nulla”. Ognuno poi ha vissuto questa cosa a modo suo.
A.M. – Tania, tu poi sei tornata in Cile, che sentimenti nutri rispetto al tuo paese?
T.L. – Un sentimento strano. La prima volta che sono tornata in Cile è stato nel 1995, . Da piccola mi sentivo sempre come una cilena in Francia, non ero mai sentita veramente francese. Quando tornammo in Cile la situazione fu molto difficile perchè arrestarono mia madre, la stavano aspettando all’aeroporto. La tennero una settimana in carcere, non la torturano fisicamente perchè lei aveva documenti francesi, quindi non fu maltrattata fisicamente ma psicologicamente sì. Ci fu una pressione enorme da parte della Francia per liberarla. Qualcuno durante la dittatura evidentemente sotto tortura, la aveva accusata di aver commesso qualcosa, in quel periodo era frequente che accadessero cose del genere... Quel periodo fu molto duro per noi, avevamo raggiunto il Cile per motivi familiari, mia nonna stava molto male e morì tre giorni dopo il nostro arrivo. Fu quindi un viaggio molto difficile e fu un trauma terribile, perchè anche se sapevamo che non c’era democrazia, non immaginavamo a tal punto. Camminavamo per strada, vedevamo la polizia passeggiare con i fucili in spalla e la gente nemmeno ci faceva caso. Io ero sorpresa perchè in Francia non si vedevano queste cose. Inoltre c’era molta intolleranza verso gli esuli, verso il popolo mapuche, perfino tra i miei stessi familiari. Io ero arrivata con un concetto idealizzato del paese perchè avevo ascoltato le testimonianze dei miei genitori, di mio zio, avevo l’idea di un Cile dove c’era solidarietà, condivisione... ma non era così.
A.M. - Quindi sei andata in Cile e non ti sei sentita più cilena?
T.L. – No. Sono ritornata in Francia con una così grande delusione che da quel momento mi sono detta: “io non sono né francese, né cilena, sono cittadina del mondo”, ma mi ci sono voluti anni e anni per riuscire ad accettarlo.
Il secondo viaggio fu nel 2000, allora fu diverso perchè la situazione di mia madre si era risolta ed eravamo molto più tranquilli, ma ormai qualcosa dentro di me si era spezzato e non vi ho fatto più ritorno da allora. I miei genitori sì , sono tornati in Cile, ma io ho avuto bisogno di altri otto anni per rendermi conto che ho il desiderio di tornare.
A.M. – Si parla e si discute tanto degli ex prigionieri politici, degli esiliati, ma l’esilio coinvolge duramente anche le loro famiglie, i figli che erano piccoli in quegli anni e che non si sono nemmeno resi conto o non ricordano nulla di quello che accadeva allora...
C.L. – Sì, ci sono diversi tipi di esilio...
T.L. E c’è un altro aspetto. Io capisco e condivido tutta la sofferenza della mia famiglia, però mi è costato molto rendermi conto che la mia storia non poteva essere la loro e per molti anni ho avuto questo senso di colpa perchè io non ero stata sottoposta a questa pressione, non avevo subito torture e da piccola non mi è mai mancato nulla, non ho sofferto mai la fame, non ho mai saltato la scuola, non mi hanno mai picchiata. Ora so però che effettivamente non è normale che io abbia vissuto in questo modo.
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