Foto tratta da Yosmary
Raggiunto nel fine settimana al telefono da chi scrive, Iván Cepeda, che ho avuto occasione di intervistare qualche settimana fa, promotore della marcia del 6 marzo in Colombia contro i crimini di Stato e del paramilitarismo, conferma che l’iniziativa, nonostante sia stata portata avanti in un clima di aperta ostilità e tra le continue minacce da parte del governo e dei paramilitari, è stata un successo. Sono state realizzate manifestazioni in circa 100 città del mondo, tra le quali quelle italiane di Roma e Torino.
A Roma, è stato organizzato un sit-in in piazza Campo dei Fiori
(Foto Annalisa Melandri)
da alcuni movimenti tra cui l’associazione A Sud, il comitato Carlos Fonseca, i colombiani in Italia del Polo Democratico Alternativo e le associazioni Narni per la Pace e Colombia Vive che appoggiano da anni le Comunità di Pace colombiane. Sono stati distribuiti volantini e materiale informativo. Colombia Vive ha affisso uno striscione con le foto delle vittime della violenza.
A Torino, con il sostegno di Amnesty è stato realizzato un punto di informazione aperto tutta la giornata dove si è distribuito del materiale e dove erano affisse le foto delle vittime dei crimini di Stato.
In Colombia si sono svolte iniziative in circa 20 regioni diverse registrando un’affluenza di circa trecentomila persone.
Iván tuttavia mi conferma che le minacce agli organizzatori da parte dei paramilitari non sono cessate e stanno continuando anche in questi giorni. Come potrebbe essere altrimenti, la marcia, infatti, lungi dall’essere stata soltanto la “otra marcha” come era stata definita, in risposta alla mobilitazione governativa del 4 febbraio contro i sequestri e le FARC, è stata un momento di aggregazione e di lotta civile della cui importanza probabilmente non si parlato abbastanza.
Immediatamente dopo la marcia è stato convocato il IV Incontro del Movimento Nazionale delle Vittime dei Crimini di Stato per i giorni 6/7/8 Marzo nella città di Bogotà, al quale hanno partecipato i sopravvissuti al genocidio dei gruppi politici e dei movimenti sociali, i rappresentanti delle comunità afro discendenti, contadine ed indigene, i rappresentati degli smobilitati ed esiliati, praticamente ogni settore della società colombiana che ha dovuto in forma diversa confrontarsi con la violenza di Stato.
Dichiarazioni pesanti e denunce gravi sono scaturite dal documento conclusivo dell’incontro, sul ruolo dello Stato, sui suoi legami con il paramilitarismo, sulla necessità del processo di pace.
Il paramilitarismo non è stato affatto smantellato, anzi continua ad essere ben presente e radicato sul territorio. “La realtà della smobilitazione” riporta il documento “è che soltanto 55 di questi criminali sono in carcere, si assiste quindi alla più grande operazione di impunità del nostro tempo”. Il Movimento conferma l’esistenza di un “conflitto sociale, politico e armato in Colombia, che affligge il paese da più di 40 anni e che deve essere risolto a partire dalle sua cause strutturali”. Pertanto si conferma la necessità “di una soluzione politica negoziata del conflitto, l’impulso ad accordi umanitari e lo scambio di prigionieri”.
Viene riconosciuto il lavoro politico della senatrice Piedad Córdoba e la mediazione del presidente del Venezuela Hugo Chávez che hanno condotto a risultati concreti con la liberazione di 7 ostaggi nelle mani della guerriglia.
Viene proposta inoltre la realizzazione di due grandi conferenze nazionali, una su “terre e territori” per la discussione di una vera riforma agraria, della restituzione di terre usurpate alle comunità rurali e indigene dai paramilitari, dalle multinazionali e dai narcotrafficanti e per la protezione delle coltivazioni dei popoli originari, nonché una conferenza nazionale sulla “democrazia e contro il genocidio” per discutere di impunità, di costruzione di democrazia, di diritti civili e umani.
Questa è la grande Colombia civile e democratica, spesso dimenticata alle nostre latitudini, che ha manifestato il 6 marzo e alla quale idealmente e non solo, siamo vicini
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