Pubblico il seguente articolo di Gian Antonio Stella, apparso sul Corriere della Sera del 12 marzo, perchè vorrei tanto ricordargli che mentre lui canta a Ingrid Betancourt, in Colombia si continua a morire per una guerra civile che né il suo commovente appello e nemmeno le canzonette di Guccini (“Ingrid noi ti aspettiamo / e vicini ci avrai, / libertà non avremo / finché tu non l'avrai”) potranno nascondere.
Gian Antonio Stella si è indignato perchè Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista in un suo articolo apparso su Liberazione qualche giorno fa, ha lungamente raccontato la sua amicizia personale e politica con Raúl Reyes senza accennare minimamente a Ingrid Betancourt.
Evidentemente Mantovani non lo ha ritenuto necessario. E questo ormai è diventato inaccettabile. Secondo la mentalità eurocentrica e neocoloniale dei nostri media , per esempio Il Corriere della Sera e La Repubblica, la Colombia esiste perchè laggiù in qualche anfratto della selva esiste e sopravvive la francese Ingrid Betancourt. E’ diventato d’obbligo, e Stella non ne è da meno, che qualsiasi accenno storico, politico e sociale della situazione colombiana debba includere almeno un accenno pietoso alla sua vicenda, la pietas occidentale contro la barbarie indigena. Riescono i nostri giornalisti a scrivere di Colombia commuovendosi ogni tanto per i colombiani?
Forse sfugge che quest’atteggiamento paradossalmente potrebbe allungare i tempi della prigionia di Ingrid. Forse sfugge che se l’Europa si ostina a considerare la guerriglia colombiana come una barbarie indigena fatta di terrorismo e narcotraffico, la Betancourt in quella selva potrebbe rimanerci altri sei anni o addirittura lasciarci la pelle.
Mentre da una parte si compiange e ci si commuove, giustamente, per Ingrid, dall’altra l’Europa con il suo atteggiamento politicamente irresponsabile verso la guerriglia colombiana nell’inserirla su editto di Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche, di fatto chiude a doppia mandata il lucchetto intorno alle catene della Betancourt.
segue:
L'elegia smemorata del compagno Ramon
di Gian Antonio Stella - dal Corriere della Sera del 12 marzo 2008
Ci vuole del fegato per scrivere un'articolessa di 1.567 parole su un
comandante della guerriglia colombiana senza nominare mai (mai: mai!)
Ingrid Betancourt, la candidata alle presidenziali da oltre sei anni
ostaggio delle Farc. Convinto che, come ha letto nei fumetti o visto
al cinema, la rivoluzione non sia un pranzo di gala, Ramon Mantovani,
c'è riuscito. E in occasione della morte di Raul Reyes, ucciso dai
reparti speciali di Bogotà in un campo in territorio ecuadoregno, ha
scritto su Liberazione giorni fa una lunghissima orazione funebre
restando accuratamente alla larga da ogni tema, ogni citazione, ogni
virgola, che potessero stonare nell'affettuoso omaggio.
C'è chi dirà come il deputato rifondarolo, che dieci anni fa portò in
Italia il capo del Pkk Abdullah Ocalan creando un indimenticabile
incidente diplomatico, che non è giusto liquidare le Forze Armate
Rivoluzionarie della Colombia come dei luridi narcotrafficanti. Che
forse l'accusa alle Farc di essere grazie alla droga «la prima
impresa di Colombia, con un giro d'affari che nel 1999 venne stimato
in 2 milioni di dollari al giorno» (accusa ripresa da Maurizio
Stefanini nel libro I nomi del male) è forzata. Può darsi. Come può
darsi che vadano prese con le pinze le accuse a Pedro Antonio Marin,
il famigerato «Tirofijo» (tiro preciso) che si diede alla macchia col
suo gruppo di guerriglieri tra il 1948 e il 1949.
Che le cose in Sudamerica siano complicate è vero. E se sei decenni
non sono bastati a un esercito dai modi spicci come quello
colombiano ad aver ragione di un po' di truppe in armi asserragliate
nella giungla, è evidente che «Tirofijo» e i suoi non sono poi così
isolati dalla popolazione.
Un conto è riconoscere questo, però, un altro è sviolinare come fa il
sub-comandante Ramon una commossa melodia «'n zacco rivoluzzionaria»
per un leader di una guerra sporca che ha fatto del sequestro di
persona, anche di gente che non c'entra nulla (come i quattro turisti
rapiti un paio di mesi fa in una località balneare: «prigionieri di
guerra») una scelta scellerata e sistematica. Un conto è appoggiare
il processo di pacificazione e un altro addossare il suo fallimento
solo ed esclusivamente al «mafioso Uribe». Un conto avere cristiana
pietà per i morti, e sono stati davvero troppi in quel mattatoio
tropicale, un altro ricordare solo i «propri» e infischiarsene dei
lutti inflitti agli altri: «Non ho mai sopportato il vizio
eurocentrico e provinciale di storcere il naso per le durezze della
guerra in Colombia, per la sua indiscutibile disumanità». Riga dopo
riga, emozione dopo emozione, singhiozzo dopo singhiozzo, Mantovani
trabocca di dolore. Meno che per Ingrid Betancourt. Ignorata.
Disprezzata. Violentata da un silenzio assordante. Come se perfino
lui, el companero Ramon, sapesse che lei è il simbolo del tradimento
della «revolucion romantica». E che quella prigionia lunga sei anni
di una donna annientata, affamata, ridotta a uno straccio, fa così
schifo da rendere insopportabile rutto il resto.
Come canta Francesco Guccini: «Ingrid noi ti aspettiamo / e vicini ci
avrai, / libertà non avremo / finché tu non l'avrai».
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