“Morire avvelenati dal made in China è l’ultima versione del “pericolo giallo”, la più inquietante.... I milioni di Barbie e Batman ritirati dalla circolazione per la vernice al piombo che può intossicare i bambini occidentali...Prima era un dragone in grado di divorare interi settori industriali dei paesi ricchi. Ora è in gioco un bene perfino più prezioso, la nostra salute e quella dei nostri figli...Scopriamo con orrore che i “terzisti” cinesi ingaggiati dalla Mattel o dalla Nike sono spesso pirati del capitalismo, criminali che non esitano a sacrificare vite umane per arricchire i loro conti offshore nei depositi esentasse di Hong Kong.”
Così scriveva quest’estate Federico Rampini sulle pagine de La Repubblica del 15 agosto, commentando la notizia del ritiro di 18 milioni di giocattoli Mattel dal mercato.
Questi erano i toni di tutto l’articolo, che chiudeva con una lapidaria conclusione: “Il suicidio del boss dell’impresa Lee Deer, colpevole di aver esportato giocattoli tossici, può diventare un sinistro presagio della sorte che toccherà un giorno al regime cinese, se si ostina a rifiutare le riforme politiche”.
Effettivamente allora, questo grido al “pericolo giallo” mi sembrò un tantino esagerato, soprattutto perchè il vero nocciolo della questione veniva gettato lì in un rigo solo: “Le Multinazionali occidentali vi hanno colto un’opportunità”.
Le multinazionali occidentali hanno colto da sempre infatti un’opportunità per far soldi e trarre enormi profitti approfittando di situazione economiche e sociali che lasciano spazio allo sfruttamento più bieco e infimo, quello della mano d’opera.
Se la Mattel decise si spostare la produzione delle famigerate bambole in Asia fu per la necessità di ridurre i costi e quindi, trarre maggior profitto dalle vendite.
I costi in Asia,. come generalmente avviene nei paesi del Terzo Mondo, si riducono sfruttando gli operai ed economizzando sui materiali.
Già Green Peace aveva portato avanti una campagna informativa nel 2005 sostenendo che nei giocattoli prodotti dalla Mattel ci fossero tracce superiori alla media di ftalato, prodotto altamente cancerogeno e risulta quanto meno improbabile che un colosso come la Mattel non effettui dei test di sicurezza o dei controlli sui suoi articoli prodotti in altri paesi.
L’impietosa analisi e condanna del “made in China” che fa Federico Rampini nel suo articolo del 15 agosto, non analizzando completamente la responsabilità della Mattel nella vicenda, peccava essenzialmente di sensazionalismo, infatti era di appena un mese prima la notizia del Colgate tossico contraffatto di origine cinese. Tutti siamo d’accordo che dalla Cina giungono tonnellate e tonnellate di merci contraffatte e quindi potenzialmente pericolose e che mancano di controlli di sicurezza, non credo però che la responsabilità di questo sia a senso unico e che giovi alla sicurezza dei nostri figli gridare al “pericolo giallo”.
Mi è capitato di comprare un giocattolo “made in China” in una nota catena di giocattoli italiana e all’aprire la confezione mi sono accorta che peccava del più elementare sistema di sicurezza per i bambini e cioè i vani portabatterie erano sprovvisti delle viti” , oltre che di scadentissima qualità, il giocattolo infatti non funzionava . Ho riportato l’articolo in questione al negozio e alle mie rimostranze il commesso mi ha fatto notare il marchio CE sulla confezione. Gli ho fatto notare d’altra parte come se oggi si falsifica tutto dalle Ferrari al dentrificio, non vedo nessuna difficoltà a falsificare un marchio su una scatola di giocattoli. Questo per dire che evidentemente se c’è un paese produttore di prodotti falsi e pericolosi, è perchè esiste ed è compiacente un mercato dove distribuirli e leggi aggirabili in vari modi.
Purtroppo l’analisi di Rampini sembrava andare a senso unico, un’Occidente buono e socialmente evoluto dopo secoli di lotte e conquiste e una Cina appena uscita dal Medioevo che deve stare alle regole se non vuole “risparmiarsi un’ondata di protezionismo”.
E secondo questa analisi la colpa del demonio cinese è da riscontrarsi nella “nomenklatura comunista” corrotta che permetterebbe a quei diavoli di capitalisti di calpestare impunemente le leggi cinesi che potrebbero anche essere almeno sulla carta accettabili.
Invece è di questa settimana la notizia che la Mattel ha dovuto chiedere mondialmente scusa alla Cina perchè il difetto riscontrato nelle Barbie non era imputabile alla Lee Der, l’azienda cinese produttrice della celebre bambola, il cui dirigente si suicidò pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo.
Pace all’anima sua. Tutti allora gridarono alla colpa, tranne i dipendenti dell’uomo che lo difesero strenuamente come un persona integra e tutta d’un pezzo. Forse troppo.
La Mattel praticamente per poter immettere subito nel mercato i nuovi giocattoli, avrebbe ridotto i test sulla sicurezza, sfornando prodotti difettosi. Le vernici tossiche cinesi non c’entravano nulla ma si trattava di piccoli magnetini pericolosi se ingeriti e risultanti essere un difetto di progettazione imputabile direttamente alla Mattel, un errore “made in Usa” quindi.
Federico Rampini però nel suo articolo di ieri, 22 settembre non analizza così impietosamente l’accaduto, come pure sarebbe stato logico fare, anzi tiene a precisare che se la Mattel ha agito con così tanta leggerezza è stato a causa della fretta dei “dirigenti della Mattel di lanciare nuovi prodotti sul mercato prima della concorrenza e prima delle copie contraffatte”.
Alla fine è sempre colpa dei cinesi, il “giallo” (nel senso di colore) assume toni più sbiaditi ma rappresenta sempre un pericolo.
E quasi quasi dovremmo sentirci in colpa, suggerisce Rampini, in un altra sua conclusione lapidaria, se per un attimo abbiamo osato pensare malissimo della multinazionale americana, perchè così facendo si rischia di “dimenticare i dentifrici tossici, gli alimenti contaminati, i medicinali falsi. O il milione di “culle killer” sempre made in China – ritirate precipitosamente ieri dal mercato Usa dopo la morte di due neonati soffocati da una barra del lettino”.
Come sempre, il nemico non è fra noi in casa nostra e ci minaccia alla porta.
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