A Ponticelli, dove i bambini giocano nell’amianto ma gli abitanti hanno più paura dei rom, sembra esserci una percezione distorta del problema sicurezza. Il presunto rapimento di una neonata da parte di una giovane rom e l’operazione di terrorismo mediatico che ne era seguita, avevano fatto scattare nei giorni scorsi la furia collettiva e in una sola nottata sono stati dati alle fiamme ben cinque campi nomadi, dopo che centinaia di persone terrorizzate tra cui moltissimi bambini e neonati erano state allontanate a suon di minacce e bastoni da una folla inferocita.
Giornali e televisioni hanno così gettato il cerino su quella che di fatto era una polveriera, fatta di cattiva gestione del territorio ed emergenze di ogni tipo: sanitaria, ambientale, abitativa, di sicurezza, di degrado. Qualcuno già esasperato da una pessima e criminale gestione della cosa pubblica, qualcun altro rispondendo a interessi non proprio limpidi, ha deciso in quel contesto di farsi giustizia e pulizia da solo. E’ difficile districare, in una realtà complessa come quella di Napoli e nel caso particolare di Ponticelli, la fitta rete di relazioni che esiste tra Camorra, istituzioni, singoli cittadini e imprenditori, soprattutto costruttori edili. Se ne è parlato pochissimo, ma a Ponticelli il prossimo 4 agosto scade il termine per avviare i lavori di edilizia pubblica e privata che rientrano nel così detto Programma di Recupero Urbano (PRU), approvato recentemente dalla Giunta Comunale. Se questa data prevista non verrà rispettata, saranno revocati i finanziamenti ministeriali che si aggirano intorno ai 67 milioni di euro. Una settimana dopo l’assalto ai roghi dei campi nomadi, è provato che questi sono già stati puliti e bonificati, con una solerzia rara e pertanto sospetta e con la stessa solerzia sono già stati smaltiti anche alcuni di quei pannelli all’amianto di cui il quartiere è ancora pieno e la cui presenza nociva viene inutilmente denunciata da anni.
I bipiani all’amianto del terremoto
Pannelli danneggiati e pertanto ancora più pericolosi, che i rom utilizzavano per costruire le loro baracche e che avevano recuperato perchè erano stati lasciati incustoditi a seguito della parziale demolizione di alcuni dei così detti “bipiani del terremoto”, prefabbricati montati a Ponticelli nel 1980 durante l’emergenza abitativa che seguì al sisma di quell’anno e costruiti interamente con pannelli all’amianto. E così mentre la diossina sprigionata dai roghi dei copertoni che bruciavano i nomadi per estrarne il rame è stata, dicono, oltre al presunto rapimento della bimba, uno dei motivi scatenanti della follia razzista di qualche centinaio di persone, si tollera ancora oggi a Ponticelli, da ormai venticinque anni, nella più assoluta indifferenza delle istituzioni, la convivenza con le fibre di amianto sparse praticamente dappertutto.
Ma mentre i rom rubano, puzzano, li incontri per strada o sui mezzi pubblici, ti infastidiscono all’uscita dalla messa, i copertoni che bruciano sprigionano diossina ed emettono un fumo nero che vedi anche da lontano, l’amianto c’è ma non puzza, sta lì e puoi anche fare finta che non esista, fa morire, ma di una morte lenta che non si sa bene quando arriva e se poi le istituzioni rassicurano che c’è ne è talmente poco, probabilmente non è nemmeno così dannoso per la salute come dicono.
Nei bipiani, in quelli non ancora sgomberati, notoriamente pericolosi, trovano alloggio centinaia di famiglie, sia di extracomunitari che di cittadini della zona, nonché disperati di ogni genere e nazionalità, per i quali non si riesce a trovare una sistemazione alternativa. Sono già noti casi di tumori e leucemie tra i bambini che vivono tra quelle pareti assassine, tre solo negli ultimi sei mesi.
Fino a qualche anno fa lì risiedevano anche alcuni rom, prima di essere dislocati nei campi nomadi per poter provvedere alla demolizione dei prefabbricati, avvenuta soltanto parzialmente, e che, ormai abbandonati alle intemperie e mai rimossi, continuano a rilasciare nell’aria pericolose fibre di amianto. Sono diventati luoghi di gioco per i bambini e rifugio per clandestini ed extracomunitari.
La scuola San Giovanni Bosco
In questi giorni abbiamo sentito parlare spesso della scuola San Giovanni Bosco, del 57° circolo didattico di Napoli-Ponticelli, saltata alla cronaca dopo un’inchiesta del quotidiano La Repubblica che, intervistando gli alunni, ha dato ampio spazio ai macabri e violenti dettagli sui roghi dei campi rom. E’ così che si altera la percezione del problema sicurezza in un paese, il nostro, che ormai è incapace di vedere al di là delle proprie paure più immediate. Tra i tanti temi degli studenti, tra i quali ne spiccano tantissimi dove si denunciano gli episodi di razzismo e dove si esprime solidarietà ai loro coetanei nomadi rimasti senza una casa, la giornalista ha scelto quelli che meglio rappresentano l’ipocrisia generale del paese Italia.
“Abbiamo dovuto usare le maniere forti” hanno scritto nei loro temi alcuni bambini della scuola. Siamo consapevoli che si è trattato di un esiguo numero di bambini, rispetto a quanti invece hanno dimostrato di avere maggior senso civico. Quello che è certo invece è che tutti i genitori e gli insegnati dei bambini di quel complesso scolastico sono consapevoli che i loro figli e i loro alunni, anno , anno dopo anno, dall’asilo alle elementari e poi alle medie, respirano giorno dopo giorno fibre di amianto. E non solo loro, ma tutta la popolazione che vive nei dintorni di Via Luigi Volpicella a Ponticelli.
Via Volpicella è infatti la strada dove si trovano i bipiani ed è adicente a Via Angelo Camillo De Meis, dove risiede proprio la scuola del quartiere, la Giovanni Bosco. Purtroppo la vulgata generale che si è mobilitata nel denunciare l’emergenza rom prima e gli episodi di razzismo popolare che ne sono seguiti poi, si è dimenticata di denunciare il razzismo istituzionale che condanna moltissimi bambini, di ogni nazionalità, piccoli studenti di quella scuola a vivere nei bipiani fatiscenti adiacenti al plesso scolastico, respirando giorno dopo giorno la polvere d’amianto che li sta uccidendo lentamente e che si sparge in tutta la zona. Fu un bambino albanese nella primavera del 2003 a scrivere all’allora sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino, denunciando la situazione. Tutto è rimasto immutato.
Petizioni, denunce, richieste sono state fatte anche da parte di alcuni comitati di cittadini e da politici locali, tutte rigorosamente senza nessun seguito, ma non c’è mai stata nessuna azione rabbiosa e violenta come quella messa in moto per liberare in una sola nottata i campi nomadi da quella presenza umana fastidiosa, maleodorante che “è sporca”, “che non lavora” , e che “ruba i nostri figli”.
Nessuna “emergenza sicurezza” per l’amianto, che c’è ma non si vede ( e non ruba i bambini).