Fonte: Il Manifesto
Il leader del Venezuela comincia la mediazione tra il presidente Uribe e il guerrigliero «Tirofijo». Un'incredibile partita di poker, in palio la vita di 45 sequestrati
Guido Piccoli
Se non si mercanteggiasse sulla vita e la libertà di tanta gente, soldati e guerriglieri compresi, quanto accade in Colombia potrebbe apparire un gioco d'azzardo. Più precisamente un poker, nel momento dei lanci e rilanci, quando i giochi sono fatti, si bluffa e bisogna mantenere i nervi a posto. Intorno al tavolo verde sono in tre: Alvaro Uribe e Hugo Chávez, rispettivamente il presidente più reazionario e più rivoluzionario dell'America Latina, e Tirofijo, il capo guerrigliero più longevo del mondo.
All'incredibile partita si è arrivati dopo il fallimento del tentativo di Uribe di liberare con un'azione di forza alcuni dei 45 sequestrati e prigionieri che le Farc vorrebbero scambiare con 400 loro uomini detenuti nelle carceri nazionali. Era la metà del giugno scorso. Mentre fingeva di scarcerare un paio di centinaia di detenuti, spacciandoli per guerriglieri, e rimetteva in libertà - contro la sua volontà - Rodrigo Granda, (1)responsabile delle Farc per l'America Latina (sequestrato a Caracas nel dicembre 2004, con un operazione di polizia che mise a rischio le relazioni con Chávez), Uribe diede probabilmente l'ok per un'azione di un commando speciale per liberare dodici deputati regionali, catturati cinque anni prima nel pieno centro di Cali. La combinazione apparente di «grande cuore e mano dura» finì, com'era scontato, in tragedia, per il rischio congenito di un blitz del genere e anche per la spietata consuetudine dei guerriglieri di eliminare i sequestrati, pur di farlo fallire. Tutti i deputati (meno uno che non si trovava nell'accampamento attaccato) furono uccisi dal «fuoco incrociato con un gruppo non identificato», come affermano le Farc, o dal classico «colpo di grazia», come sostiene il governo (lo deciderà, forse, l'autopsia che una commissione internazionale ha realizzato nei giorni scorsi sui cadaveri recuperati, quasi due mesi dopo, nelle fosse scavate dai ribelli).
Le critiche interne, che hanno trovato un impareggiabile portavoce nel professor Gustavo Moncayo (padre di un ufficiale fatto prigioniero dieci anni fa dalle Farc nel corso di un attacco a una delle principali basi militari meridionali) e le pressioni internazionali, capeggiate dal presidente francese Nicolas Sarkozy (deciso a liberare la sua connazionale Ingrid Betancourt), hanno spinto Uribe a nominare due dei suoi nemici come mediatori con le Farc: la combattiva senatrice liberale Piedad Cordoba (che, nei mesi scorsi, aveva sollecitato la sua rinuncia per i suoi rapporti con la mafia narco-paramilitare) e il suo vicino Hugo Chávez, tante volte accusato di proteggere la guerriglia colombiana. Una mossa azzardata, apparentemente umile ma anche insolitamente astuta per un uomo che spesso si è fatto trascinare dal temperamento arrogante e impulsivo: ribadendo di non volere cedere alla richiesta delle Farc di smilitarizzare per 45 giorni due comuni della Colombia meridionale, alla Cordoba e soprattutto a Chávez ha in realtà assegnato una «missione impossibile».
Il presidente venezuelano non si è però scoraggiato: prima ha incontrato a Caracas i familiari dei prigionieri delle Farc, poi Uribe a Bogotà, sfoggiando una fiammante camicia rossa e dopo aver concesso l'indulto a 40 paramilitari colombiani, accusati di cospirare contro di lui. E alla fine si è dichiarato pronto ad incontrare Tirofijo. Dove? «Fuori dal paese» ha tuonato Uribe. «Qui da me» ha suggerito Tirofijo, attraverso il suo cancelliere, Raul Reyes. «Sono disposto ad andare nel più profondo della selva, pur di contribuire alla pace della Colombia» gli ha fatto eco Chávez. Un'idea che il governo Uribe ha però definito «inaccettabile». Il ministro degli esteri, Fernando Araujo, è andato più in là, dichiarando, nei giorni scorsi a Bruxelles, di non sperare nella mediazione venezuelana perchè «le Farc non hanno alcun interesse a fare accordi con nessuno».
In realtà, lo scambio dei prigionieri interessa relativamente sia a Uribe che a Tirofijo, così come è del tutto pretestuosa la questione della zona smilitarizzata: il ritiro dell'esercito per un mese e mezzo da qualche decina di chilometri quadrati è assolutamente ininfluente dal punto di vista militare. Quello che c'è il ballo è il riconoscimento di «forza belligerante» che le Farc esigono, con la relativa cancellazione del marchio di «terrorista» che gli Usa, e poi l'ubbidiente Europa, hanno loro affibbiato. E più in generale, l'accettazione da parte del governo colombiano, dopo mezzo secolo di battaglie, dell'esistenza di un conflitto armato nel paese. Una questione di principio, dalle conseguenze importanti per la pace in Colombia, che più che a Bogotà si decide a Washington. Anche se finora sono stati alla finestra, gli Usa sono più che interessati a quanto accade, anche perchè le Farc detengono tre loro agenti dal febbraio 2003. Un puzzle complicato, ma in movimento grazie soprattutto al protagonismo di Chávez e Sarkozy.
Per ora, una sola certezza: se, com'è probabile, fallissero anche loro, la Betancourt e tutti i suoi compagni di sventura dovrebbero rassegnarsi ad aspettare la fine del mandato di Uribe nel 2010, pregare che non si faccia rieleggere per la terza volta e, soprattutto, che da un momento all'altro non cali loro addosso un altro commando speciale e specializzato nel «far terra bruciata».
(1)Segnalo al riguardo l'intervista in esclusiva per Le Monde diplomatique a Rodrigo Granda apparsa sul numero di settembre, dove in un passaggio egli tra l'altro racconta di come durante la sua detenzione gli fossero stati offerti anche "molti soldi, la libertà, dei passaporti per me e la mia famiglia, a una condizione:che io compromettessi Chávez. Dovevo dire che proteggeva le Farc e che io ero stato aiutato dal suo governo".A.M.