Il museo di scienze naturali di La Plata, capitale della provincia di Buenos Aires, in Argentina, nelle sue sale non ha esposto soltanto resti fossili animali e vegetali ma è stato anche sede di una delle esposizioni di resti umani più discusse di tutta l’America latina. Fondato nel 1877 da Francisco Pascasio Moreno, che lo arricchì di importanti collezioni di sua proprietà, venne aperto al pubblico soltanto nel 1888 e oggi è considerato per la rarità dei suoi reperti e per le ricerche che svolge, uno dei dieci migliori musei del mondo nel suo genere.
Vi sono conservati, oltre ai numerosi e rarissimi mammiferi fossili della pampa, (si parla di circa 10mila pezzi di provenienza e datazione diverse), anche innumerevoli resti umani di indigeni. Alcuni sono il frutto di veri e propri saccheggi compiuti nei cimiteri dei nativi e appartengono alle vittime della “Campaña del Desierto”, la conquista del deserto, l’operazione militare con la quale tra la fine del secolo XIX e i primi anni del secolo XX l’esercito della Repubblica Argentina sottrasse con la forza agli indigeni mapuche e tehuelche enormi porzioni di territorio della Pampa e della Patagonia. Si dice anche che il Museo organizzò delle vere e proprie campagne di raccolta di reperti umani agli inizi del secolo scorso.
L’antropologo Fernando Pepe fa parte del gruppo Universitario di Ricerca in Antropologia Sociale (GUIAS), che si è formato nel 2005 dopo che una comunità boliviana, praticando cerimonie sacre e riti religiosi, aveva chiesto la restituzione di alcune mummie che si trovavano esposte nelle sale.
Così egli e un gruppo di suoi studenti, impressionati dalla richiesta degli indigeni, decisero di avviare le procedure per la restituzione delle mummie. Nel 2006 iniziarono degli studi per stabilire l’esatta provenienza del materiale conservato nel museo e per questo venne scelta come data di partenza della ricerca proprio l’anno di fondazione dello stesso, anno nel quale risultò essere entrata la maggior parte dei reperti. Da questi studi risulterebbe anche che due “insigni” scienziati, il botanico italiano Carlo Luigi Spegazzini e lo studioso svizzero Santiago Roth, che trascorsero molti anni lavorando presso il Museo La Plata, circa un secolo fa si dedicavano oltre ai loro studi, anche all’assassinio di indigeni proprio per conto del museo.
Più semplicemente, invece, le donazioni “personali”, erano uno dei modi più usuali di rifornire di reperti le sale del museo. Importanti furono quelle del colonnello Godoy, il governatore della Terra del Fuoco. D’altra parte egli era colui il quale scriveva il 20 gennaio 1897 al presidente della Repubblica Argentina quali erano le sue soluzioni per il problema degli indigeni della Terra del Fuoco:
1) Farli prigionieri per conto della nazione
2) Sterminarli con la fame e la miseria o per morte violenta o in lotte con la polizia
3) Lasciarli liberi di continuare la loro vita mettendo a rischio gli interessi dei privati
4) Prenderli e trasferirli in altri luoghi.
Moltissimi resti invece provenivano direttamente dalla collezione privata di Francisco Moreno, il fondatore del museo, (collezionò circa 2500 crani umani tra i 20 e i 27 anni) che non era uno scienziato, ma un politico, come spiega l’antropologo Fernando Pepe in una intervista rilasciata a Azkintuwe: “egli ha un ruolo di perito nella storia argentina, è colui il quale ha delimitato i confiini con il Cile, questo è il lavoro per il quale è conosciuto... Il suo ruolo era quindi politico e il Museo de La Plata è la pietra fondamentale di una politica che voleva dire: “La Patagonia è argentina, non è cilena, non è degli araucani, non è dei tehuelche, non è dei mapuche”.
Leggendo e studiando i testi conservati nella biblioteca annessa al museo, Fernando Pepe e il suo gruppo si resero ben presto conto di un’altra realtà, non meno inquietante: presso il museo, nei primi anni della sua fondazione vivevano stabilmente gruppi di indigeni prigionieri di guerra e addetti per lo più alle pulizie e ai lavori più umili, che una volta deceduti venivano esposti nelle sale. Il lonko Inakayal, uno di questi prigionieri, è stato identificato recentemente grazie al cuoio capelluto e ai pezzi del suo cervello disseccato esposti nelle vetrine.
Pepe e il suo gruppo stanno tentando oggi di far restituire i resti umani ai loro legittimi discendenti anche in base alla Legge Nazionale n. 25.517 del 2001 che stabilisce che “i resti mortali indigeni, qualsiasi sia la loro collocazione devono essere restituiti alle comunità di appartenenza che li reclamano.”
Nel 2006 le sale del Museo che esponevano i resti umani sono state chiuse e questi riposti in un magazzino in attesa di decidere le modalità di restituzione, gli ultimi sono stati spostati nel dicembre del 2007, si tratta però di alcuni resti umani egizi che erano conservati nel museo e per i quali si sta studiando una collocazione definitiva.