Un test del DNA stabilì una settimana fa, e la notizia fu confermata successivamente da un comunicato delle FARC, che il piccolo Emmanuel, di cui l’unica foto disponibile è quella a fianco, era “libero” nelle mani del governo Colombiano.
Comunque sia andata, ci auguriamo che possa far parte presto della sua famiglia di origine e nella migliore delle ipotesi possa riabbracciare presto la sua mamma, se come è vero, giunge notizia dal Venezuela che le FARC avrebbero comunicato a Hugo Chávez le coordinate per la liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, che potrebbe avvenire già domani.
Lo abbiamo immaginato in una foresta, “bimbo della giungla”, come lo definì la Repubblica in un articolo di Omero Ciai, lo abbiamo immaginato trascorrere tra i guerriglieri i suoi appena tre anni e mezzo di vita. I media ci hanno venduto la sua immagine di bambino maltrattato, costretto a vivere in prigionia, mentre da un comunicato delle FARC pubblicato dalla ABP (Agencia Bolivariana de Prensa) veniamo a sapere che Emmanuel, non potendo stare tra le “operazioni belliche del Plan Patriota, ai bombardamenti e combattimenti, alla mobilità permanente e alle contingenze della selva”, fu “affidato a persone di fiducia di Bogotà mentre si firmava l'accordo umanitario.”
La storia, che potrebbe essere uscita dalle pagine di De Amicis, ha dell’incredibile.
La versione governativa, basata sulla testimonianza di José Gomez, l’uomo che aveva in custodia il bambino è diversa da quella fornita dalle FARC. Secondo il DAS che sta seguendo la vicenda, il piccolo venne affidato ad appena tre mesi di vita da un gruppo di guerriglieri a José Gomez, simpatizzante del movimento, che viveva nel municipio de El Retorno nel Guaviare.
Il bambino venne portato in ospedale dall’uomo, perchè nonostante le prime cure che gli aveva assicurato, le cattive condizioni di salute in cui si trovava (dovute alla frattura del braccio avvenuta al momento della nascita e alla malaria) non accennavano a migliorare.
José Gomez si recò con il piccolo e gli altri suoi figli (ne ha cinque) in canoa al centro medico più vicino, dove sospettando un caso di maltrattamento infantile, segnalarono la situazione del bambino al IBPF (Istituto Colombiano del Benessere Familiare, una sorta di assistenza sociale) che lo prese sotto la sua tutela.
Successivamente il piccolo fu trasferito a Bogotà in un’altra struttura dell’istituto anche per la necessità di sottoporlo ad un’operazione chirurgica al braccio, struttura dove tutt’ora risiede in attesa del disbrigo delle pratiche successive al risultato del test del DNA che lo consegnerebbero finalmente all'affetto dei suoi familiari.
José Gomez, per paura mentì alle FARC che erano tornate nel frattempo a farsi vive per chiedergli notizie del bambino, dicendogli che si trovava presso una sorella che viveva a Bogotà.
Le FARC si ripresentarono a chiedere notizie del piccolo Emmanuel circa tre mesi fa e poi di nuovo verso metà dicembre, dando all’uomo come ultimatum la data del 30 dicembre per la riconsegna del bambino.
José spaventato dalle minacce ricevute si mise allora in contatto con la Fiscalía, mentre confermavano la sua versione una serie di telefonate anonime giunte al CTI (Cuerpo Técnico de Investigación) poco prima del 28 dicembre, comunicando che un bambino, probabilmente il figlio di Clara Rojas, sarebbe stato rapito dal IBPF.
Se si trattasse di un romanzo potremmo dire che la vicenda è intrisa di una buona dose di realismo magico che colora di toni surreali gli avvenimenti, le persone, le casualità..
A partire dalla figura di José Gomez, “el indio”, l’uomo al quale le FARC avrebbero affidato il bambino, colui che nelle ultime settimane è stata la persona più ricercata della Colombia, sia dagli apparati di sicurezza che oramai erano sulle sue tracce, sia dalla guerriglia che aveva necessità di recuperare il piccolo Emmanuel. Strana famiglia quella di José. In un unico nucleo familiare racchiuse tutte le contraddizioni che insanguinano il paese e che palesemente, come spesso accade, finiscono per mettere contro fratelli contro fratelli, amici contro amici. L’esemplificazione anagrafica della guerra civile che vive la Colombia sulla pelle della sua gente.
José Gomez, l’uomo di cui le FARC si sono fidate affidandogli le cure di Emmanuel, è stato infatti candidato del partito Colombia Democratica, praticamente i fedelissimi di Uribe, il partito maggiormente colpito dallo scandalo della parapolitica e presieduto dal cugino di Álvaro Uribe, Mario Uribe Escobar, che tra una riunione di partito e una seduta al Congresso, trovava tempo per intrattenersi a parlare d’affari direttamente con Salvatore Mancuso. Attualmente è indagato per paramilitarismo.
Una delle sorelle di Josè Gomez che vive a Bogotà invece è una funzionaria del DAS, persona affidabilissima, fanno sapere dalla struttura dove lavora con incarichi amministrativi da più di dieci anni. Al momento è sotto protezione dello stato.
Un altro fratello, invece fu un attivo guerrigliero, defunto da tempo, in passato catturato e arrestato, ma del quale non si conoscono le circostanze della sua morte.
Le tre anime del paese in una sola famiglia. Già di per sé questo la dice lunga sulla complessità delle vicende colombiane e lascia spazio e tempo per evitare di dare giudizi affrettati e sicuramente viziati da ignoranza su quanto accade nella grande Macondo latinoamericana, dove si intrecciano magicamente e realisticamente storie tanto diverse, solo apparentemente senza un filo logico.
Ben altre constatazioni di carattere più pragmatico e pratico si impongono comunque all’attenzione dopo un’attenta analisi di quanto sopra.
Al di là dell’evidente riflessione sul fatto che non si possa che esser felici che il piccolo Emmanuel stia bene e abbia avuto, nonostante la sua situazione, quel trattamento umano messo in dubbio da più di una voce, quello che maggiormente risalta all’occhio in questa vicenda è il senso di amarezza e rabbia che ha provato la comunità internazionale fino a quest’oggi, (giornata in cui è stata annunciata l’imminente liberazione delle donne), che evidentemente si aspettava qualcosa in più dalle FARC in questo scorcio di fine d’anno.
L’investitura politica ricevuta da Chávez le aveva caricate della responsabilità di dimostrare al mondo intero che non si sbagliava chi con impegno e serietà verso la loro causa chiede che non vengano considerati dei terroristi come gli interessi congiunti di Uribe e Bush li etichettano, bensì, nonostante le evidenti difficoltà di comunicazione con i loro vertici e di diplomazia, (che non si può pretendere essere equiparata a quella delle “democrazie istituzionali” con le quali stavano trattando la liberazione degli ostaggi), una forza politica in grado di portare una speranza per la pace in Colombia.
Non credo come si sta è affermato in questi giorni sui media del mondo intero, che le FARC abbiano mentito a Chávez e alla comunità internazionale.
Immagino che l’accordo per la liberazione degli ostaggi, pur con tutta la simpatia che sembra esistere tra l’organizzazione insorgente e il presidente venezuelano, non contemplasse la rivelazione di dettagli importanti e specifici sull’ubicazione dei prigionieri o la comunicazione della saggia decisione di aver affidato ad altri quelle cure per il piccolo Emmanuel che non sarebbe stato possibile garantirgli in una foresta. E se Clara Rojas e Consuelo Gonzáles de Perdomo fossero liberate, questo fatto confermerebbe tale versione.
Ciò non toglie che quella delle FARC sia stata una manovra azzardata, un gioco rischioso, che ha fatto pensare per un attimo che per la pace in Colombia davvero non ci fosse più nessuna speranza, anche perchè mentre le FARC, confermando nel loro comunicato che il processo di liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, sarebbe andato avanti, “così come stabilito con il Governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela” ribadivano che si rendeva necessaria la smilitarizzazione dei territori di Florida e Pradera, Uribe dalla Casa de Nariño tuonava che non avrebbe più accettato missioni umanitarie internazionali in Colombia per la liberazione degli ostaggi. Tabula rasa sulla speranza.
E invece oggi la speranza se pur con le dovute cautele si riaccende, e Uribe ha dovuto in tutta fretta dare un ulteriore via libera alla nuova missione annunciata da Chávez .
Se non verranno liberate domani le due donne sarà la grande occasione mancata delle Farc.
Vorrei dire come Yolanda Pulecio, la mamma di Ingrid Betancourt che “non le conosco molto, ma mi fido più delle FARC che del governo del presidente Uribe” e domani avere la certezza che probabilmente per la Colombia inizi un nuovo capitolo. Non semplice, irto comunque di difficoltà, un processo tutto in salita che deve fare i conti con il potere, con la memoria dei morti e la paura dei vivi, con gli interessi delle multinazionali straniere e le necessità primarie dei contadini, con la contraddizione dei pochi che hanno tutto e dei moltissimi ai quali non è rimasto più nulla. Comunque sia un processo segnato da un passo importante, rispetto al quale il presidente Álvaro Uribe dovrà rivedere tutta la sua strategia politica e militare nella risoluzione del conflitto.
Le FARC sono riuscite in queste settimane ad escluderlo dalle trattative per la liberazione degli ostaggi, lo hanno messo in un angolo mentre loro diventavano i protagonisti indiscussi della scena. Proprio quello che hanno sempre chiesto. Hanno avuto l’attenzione dei media e della diplomazia internazionale, hanno avuto la possibilità di veder veicolato e trasmesso al mondo intero il loro messaggio, il loro essere “forza politica” desiderosa di un cambiamento nel paese.
Giocare questa occasione per una mossa azzardata, peggio, per una superficialità, è questo quello che ha fatto più rabbia, in chi ha sempre sostenuto, spesso sentendosi voce fuori dal coro, la loro posizione.
Non i loro metodi, dal momento che siamo tutti convinti che la pace non si possa conquistare con l’uso delle armi, ma comunque sempre con la consapevolezza che il loro punto d’osservazione e d’azione andasse contestualizzato in quella che è la situazione della Colombia, con una violenza e una barbarie incancrenite e cronicizzate da più di 50 anni di guerra civile.
E’ stata questa una grande occasione, e se l’operazione andasse finalmente a buon fine, Uribe certamente ne uscirebbe come il grande sconfitto, sicuramente non potrebbe più tirarsi indietro nemmeno alle future richieste, ove venissero fatte, della smilitarizzazione di Florida e Pradera dove poter portare avanti i dialoghi di pace e la liberazione di tutti gli altri prigionieri, con l’appoggio e l’occhio vigile della comunità internazionale, ma particolarmente dei paesi latinoamericani come Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador che maggiormente spingono per un’unità che non è solo economica e finanziaria ma che come scrive Gennaro Carotenuto è “un concerto autonomo anche per la risoluzione di conflitti” e che oltre ad aver raggiunto obiettivi importanti per la crescita e l’integrazione della regione “è stato ad un passo dal raggiungere un altro straordinario risultato: l’apertura di un processo di pace in Colombia”.