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Quale cultura ci salverà?
Di Annalisa (del 17/05/2008 @ 09:18:35, in Società/Sociedad, linkato 1739 volte)

Si respira nel paese un clima pesante di violenza. Una violenza che a volte  germina e trova terreno fertile in una sottocultura fatta di simboli e immagini che ci riportano prepotentemente indietro di decenni.
Svastiche e immagini di Hitler e Mussolini nel computer di un quattordicenne che è accusato di aver seviziato, bruciandogli anche i capelli, un coetaneo; un ragazzo ammazzato di botte a Verona da cinque nazifascisti. Questi sono solo gli ultimi due episodi in ordine di tempo sui quali si impone una riflessione. Tanto più urgente dal momento in cui sembra trattarsi di fenomeni nei quali si può parlare di atteggiamenti maturati in seno a famiglie consapevoli e complici. Famiglie che hanno dissoluto il loro ruolo educativo delegandolo al branco, alla televisione, a internet. Libri e quaderni contro playstation e televisione,  il tempo lento della riflessione sulla parola scritta contro la velocità dell’immagine. E la cultura, un tempo sogno e illusione, desiderio e speranza,  oggi appare sempre più lontana, tanto lontana quanto la memoria della storia del nostro Paese. Possiamo ancora salvarci? Quale cultura oggi può ridarci la dignità costruita con la nostra Resistenza antifascista? Dove possiamo trovare l’antidoto alla violenza e le basi di una vera cultura della pace e del rispetto dell’essere umano? Esiste una cultura della pace e del rispetto, della dignità e della partecipazione ed esiste una cultura dell’esclusione, della prevaricazione e della sopraffazione. Senza voler a tutti i costi colorare di rosso o di nero l’una o l’altra, non possiamo dimenticare quello che hanno rappresentato gli anni del fascismo e del nazismo per l’Italia e per l’Europa. La semplificazione che si sta facendo attualmente di quanto accaduto allora, i tentativi di ridare ai crimini e agli orrori commessi nel nome di certe ideologie un se pur minimo margine di accettabilità,  rende striscianti e quindi ancora più pericolosi,  atteggiamenti e valori che sono lontani dai concetti sui quali si basa il vivere civile e che sono bene espressi nella nostra Costituzione.
"Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini".
Così scriveva  Elio Vittorini nel suo editoriale nel settembre del 1945 sul primo numero de Il Politecnico.
La seconda guerra mondiale si era appena conclusa e gli Stati Uniti avevano soltanto da un mese raso al suolo Hiroshima e Nagasaki con le prime bombe nucleari utilizzate a scopo bellico.
La guerra terminava con un saldo terribile, circa 70 milioni di morti, sparsi da occidente a oriente, ma quello che probabilmente spaventava ancor di più e per cui legittimamente Vittorini si chiedeva “di chi fosse la sconfitta più grave” in tutto quello che era appena accaduto, era il fatto che la guerra aveva spersonalizzato la morte.
Il maggiore Thomas Ferebee, bombardiere del B-29 che sganciò The Little Boy su Hiroshima, solo pochi minuti prima di lanciare la bomba seppe che quella era stata la cittadina prescelta in base alle favorevoli condizioni ambientali, diversamente, analoga sorte sarebbe costata a Kokura, Niigata o Nagasaki.
Il tempo di premere un pulsante e Hiroshima fu distrutta. L’equipaggio dell’Enola Gay ebbe solo un brevissimo secondo per rendersi conto della tragedia che si era appena conclusa. “My God!” esclamarono prima di volare via, il più lontano possibile da quel luogo, il resto furono solo vittime senza volto e sofferenze indicibili per i pochissimi superstiti che ebbero la disgrazia di sopravvivere.
A differenza di quanto avveniva in passato “la tecnologia rendeva invisibili le sue vittime, mentre ciò non accadeva quando si sventravano i nemici con la baionetta o li si inquadrava nel mirino del fucile[1].
I morti, si lamentava Vittorini, furono “più di bambini che di soldati”, le macerie di “città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali”.
Il nazifascismo prima e la guerra poi, avevano commesso tutto   il repertorio completo dei delitti e dei crimini che la cultura e l’intelletto avevano insegnato ad aborrire.
Come è stato possibile? Come è stato possibile che da secoli di arte, poesia, letteratura, pensiero nobile, sia nato un mostro in grado di mettere in pratica tutto ciò che l’animo umano aveva condannato fino a quel momento?
La cultura “ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società “ ha consolato l’uomo invece di proteggerlo, di educarlo e di renderlo forte. In questo stare fuori dalla società intravedeva Vittorini la causa del male.
La cultura, sperava Vittorini alla fine della guerra, avrebbe dovuto apportare principi “tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive”, per sanare il dolore ancora vivo delle ferite, per preservare da sofferenze a venire.
Cosa potrebbe fare invece per noi oggi la cultura? Da quali sofferenze moderne può ancora proteggerci?
Ed esistono ancora principi tanto innovatori ed attuali in grado di   proteggerci dai mostri a venire?
Riusciremo a restituire alla cultura il suo ruolo taumaturgico?
E’ sopravvissuta la specie umana a quanto di più terribile e atroce si sia mai potuto immaginare, ma quanto è avvenuto, iniziando dalle due guerre fino a Hiroshima e Nagasaki, passando attraverso l’Olocausto, in realtà ha immunizzato l’uomo da quello che sarebbe avvenuto in seguito.
Le torture subite e testimoniate dalle foto terribili che noi tutti conosciamo degli ebrei ad Auschwitz, a Bergen-Belsen, a Dachau, i macabri reperti del “museo degli orrori” di Hiroshima, ci stavano così preparando a guerre future, alla tolleranza delle torture moderne, la “democratizzazione” dei conflitti era iniziata e non si sarebbe più potuto tornare indietro.
L’umanità frequentò un corso accelerato di sopportazione delle atrocità. Da allora la tortura, le atrocità commesse dall’uomo sull’uomo sono diventate esperienze via via più accettabili.
La guerra oggi è vista in televisione ogni giorno, viene letta, studiata, fotografata, trasformata in cifre. Tanto più entra nelle nostre case e tanto più esce dalle nostre coscienze.
Ha fallito anche Primo Levi, quando esortava a “ricordare perchè non accada mai più”. Va tramadato “l’orrore perchè lo spettro della violenza dell’uomo sull’uomo sia sempre combattuto”, diceva.
La letteratura, la poesia, ci hanno provato a tramandare l’orrore e hanno fallito se oggi simili orrori si ripetono, se altrettante guerre mietono vittime che non hanno nomi, sesso, età. I torturati di oggi, a differenza di quanto accadeva in passato non hanno nemmeno i volti. Adolescenti impazziti giocano con i mostri del passato.
Dal passato dal quale con  fatica, è riuscita a risorgere  l’Europa dalle ceneri della guerra, ed è rinata l’Italia, che con orgoglio e speranza, gettandosi alle spalle la paura e l’angoscia degli anni del fascismo, si è dedicata alla costruzione della democrazia. E l’ha costruita questa democrazia, con l’impegno di uomini e donne coraggiosi e nobili.
E che ne è stato della cultura? L’abbiamo dimenticata. L’abbiamo dimenticata se oggi tolleriamo il ritorno di certi simboli e certe rievocazioni nostalgiche che con forza e vigore, con rabbia e sdegno dovrebbero essere aborrite.
Abbiamo dimenticato semplicemente che il compito della cultura è quello di continuare a tramandare ciò da cui ha avuto origine il nostro paese, quello di insegnare ai nostri figli quali sono i pilastri portanti della nostra identità di Nazione.
Abbiamo dimenticato la funzione della cultura, che è quella di denunciare violenza e sopraffazione e dopo la denuncia passare e accarezzare.
La poesia, vibrante e vitale, oggi inesistente e irraggiungibile, l’ abbiamo chiusa nei salotti, l’abbiamo tenuta lontana dalle strade e dalle piazze. Il teatro sempre più identificato con la televisione, il romanzo sempre più prodotto "mordi e fuggi". Internet e la rete, prodotti sostitutivi fatti di parole e definizioni, di  storie e poesie che  scivolano in rete, viaggiano nei file, lasciando dietro di sè, in solitudine,  l'effimero e impalpabile attimo in cui puoi solo coglierne il significato immanente.
Una cultura usa e getta che non si fissa alla società, una cultura effimera che non educa alla memoria e non prepara quindi al futuro. L’uomo massa che siamo diventati non volge lo sguardo indietro e non immagina il futuro, ma così facendo prepara il ritorno del più buio passato.
 


[1] Il secolo breve E.J. Hobsbawm BUR pag. 67